Diario di un amministratore
Tutto quello che leggerete è vero. Giuro sulla mia collezione di verbali d’assemblea andati deserti. Ma la verità, si sa, è una signora schiva e un po’ distorta dalla lente con cui scegli di guardarla. La mia lente? È spessa, con le lenti appannate dalla fatica e incrinata dall’ironia. Senza di essa, credetemi, certe giornate non sarebbero solo lunghe, sarebbero l’anticamera della follia. Perché la vita di un amministratore di condominio non è fatta di carte e numeri (solo!), ma è un continuo, estenuante scontro con l’assurdo. E stamattina, con la precisione di un orologio svizzero rotto, non fa eccezione.
RICHIESTE STRAVAGANTI E SURREALI. O DELLA DISPERAZIONE MILLIESIMALE.
Apro la casella di posta. Un rito quotidiano che sa di carta polverosa e grattacapi annunciati. Tra le solite comunicazioni che scandiscono il mio tempo – solleciti che non sollecitano nessuno, preventivi che lievitano come il lievito madre dimenticato, rendicontazioni che so già nessuno leggerà oltre la prima riga – spunta un’email. Mittente sconosciuto. Il nome non mi dice nulla, di certo non figura nell’anagrafica di nessuno dei miei condomini. Eppure, eccolo lì, un messaggio dalla formalità impeccabile, quasi solenne nella sua stesura, che mi chiede, con candore disarmante… come ripartire i millesimi dopo aver diviso il suo appartamento a metà.
Rileggo. Una volta. Due. Cerco tra le righe un segno, un emoticon nascosto, l’indizio di uno scherzo venuto male o di una telecamera puntata su di me per un reality show sulla pazzia condominiale. Niente. La domanda è seria. Terribilmente seria.
Chiudo gli occhi un istante, respiro a fondo, l’aria dello studio che sa di toner finito e caffè freddo. So già che la sua non è una sete di conoscenza tecnica, non davvero. Quello che cerca è un’assoluzione, una convalida, una specie di benedizione amministrativa esterna. Ha un amministratore, ne sono certo. Ma dev’essersi convinto che il suo sia un incapace siderale, un burocrate inadeguato al compito, e così, con una fiducia che confina con la disperazione poetica, si è rivolto a me. Uno sconosciuto scelto a caso nell’immenso mare del web, forse dopo una ricerca su Google tipo “amministratore che risolve tutto con un click”. Forse mi immagina seduto su un trono di delibere, un oracolo barbuto custode dei sacri millesimi e delle tabelle di ripartizione, capace di illuminare le tenebre condominiali con una sentenza inappellabile.
Rispondo. Garbatamente, eh. Gli suggerisco, con una cortesia asciutta, quasi sterile, di rivolgersi al suo amministratore. Un’email breve, definitiva, che sa di liquidazione senza rancore. Come una mano tesa che si ritrae un attimo prima del contatto, lasciando entrambi sospesi nel vuoto. Non entro nel merito del suo labirinto privato. Non ho tempo, né l’energia vitale, né gli strumenti per perdermi in una faida millesimale che non mi appartiene e che, sospetto, nasconde dinamiche ben più contorte di una semplice divisione di quote. So che cerca una voce esterna che dica: “Sì, hai ragione tu, è esattamente così che si fa”. Ma non posso farlo. E, francamente, non voglio. Ho le mie scadenze che incombono come nuvole nere, i miei bilanci da far quadrare con la forza della volontà, e un’assemblea in vista che preannuncia tempesta, e non solo metaforica.
FRUSTRAZIONE E CAPRO ESPIATORIO. OVVERO: CHI È IL RESPONSABILE DI TUTTI I MALI DEL MONDO?
Non faccio in tempo a resettare il cervello, a sorseggiare un po’ di quel caffè ormai ghiacciato, che il telefono ulula. Numero sconosciuto. Rispondo con la rassegnazione di chi sa che il peggio deve ancora arrivare. La voce dall’altro lato è una lama: imperiosa, affilata, non ammette pause né obiezioni. È uno di quelli che non chiedono per favore, ma comandano. Vuole un preventivo per la gestione del suo condominio. Subito. Ora. Ma c’è qualcosa di storto nel suo ritmo, una fretta nervosa che nasconde impazienza, un’insofferenza che gratta sulla linea come unghie sulla lavagna.
Chiedo le informazioni di base. Quelle che un condomino dovrebbe avere a portata di mano se solo avesse letto due volte l’ultimo verbale: numero di unità immobiliari, metri quadri, la presenza di lavori straordinari in corso o programmati… Balbetta. Si incarta. Si perde in dettagli irrilevanti, digressioni inutili, gira attorno alle risposte come se ogni parola fosse un dazio da pagare al nemico. E lì, l’illuminazione: non cerca un preventivo. Cerca un confessionale. Un pretesto per l’inizio del suo monologo catartico.
Parte. Un fiume in piena contro l’attuale amministratore. Un disastro vivente. Un incompetente cosmico. L’incarnazione dell’incapacità elevata a sistema condominiale. L’elenco delle sue colpe è così dettagliato, così preparato, che mi chiedo se non legga da un copione scritto nei ritagli di tempo libero. Ma mentre snocciola difetti e nefandezze (reali o presunte, chi può dirlo?), capisco che non parla davvero dell’amministratore. No, è una seduta spiritica collettiva, una purificazione verbale. Ogni insulto lanciato nell’etere è una catarsi personale, un pezzo di bile che si consuma, una frustrazione che evapora dalla sua anima tormentata.
Lo lascio fare, come si lascia sfogare un temporale estivo, sapendo che prima o poi dovrà scaricare tutta l’acqua e tornare il sereno (o almeno la pioggerella). Quando rallenta, esasperato, quasi senza voce, suggerisco con la calma di chi ha visto troppi cicloni passare sulla propria testa: “Guardi, forse, se nessuno paga le quote condominiali, se c’è un’alta morosità, l’amministratore ha poco margine di manovra per fare certi interventi o recuperare la situazione. Non può fare miracoli a mani vuote, o senza i soldi in cassa”.
Esplode di nuovo. “Ma l’amministratore dovrebbe recuperare le morosità con la forza! Dovrebbe andare porta a porta a prendere i soldi! Dovrebbe mettere paura a chi non paga!” Per un istante, la sua voce si trasforma nel ruggito di un leone inferocito. E io, nella mia mente, lo immagino: un giustiziere condominiale solitario, con un cappello impolverato e un decreto ingiuntivo al posto della Colt, che sfida i morosi in duello all’ultimo sangue sul pianerottolo al tramonto.
Trattengo a stento una risata isterica che mi risalirebbe dalla pancia. Ormai è cristallino, più trasparente dell’acqua che (forse) vogliono ripartire nell’altro condominio: non cerca una soluzione ai problemi del suo stabile. Cerca un capro espiatorio. Una figura totemica su cui scaricare tutto il malessere che sente, ogni inefficienza del mondo che lo circonda, ogni bolletta non pagata, forse persino la pioggia quando piove troppo o il sole quando c’è troppo caldo.
Ascolto, annuisco al telefono vuoto (tanto lui non mi vede), lo lascio svuotare il sacco della sua rabbia impotente. So già che non accetterà nessun mio preventivo, che nessuna mia proposta sarà adeguata. Non è questo il punto della sua chiamata. Dietro ogni richiesta stravagante, ogni pretesa assurda, ogni accusa infondata, c’è quasi sempre un bisogno più profondo, un’insicurezza che si maschera da legittima rivendicazione, un’attesa irrealistica di un salvatore.
IL VALORE DELL’ACQUA (E DELLA PAZIENZA) E IL COSTO DI UN MIRACOLO
Sto per premere ‘spegni’ al computer, la luce blu dello schermo che si affievolisce promettendo qualche minuto di pace, quando il telefono vibra di nuovo. Numero sconosciuto. Sospiro. Rispondo, l’anima ormai fatta di gomma consumata e rassegnazione.
“Buongiorno, sto cercando un preventivo per l’amministrazione del nostro condominio. Siamo ventuno unità. Ci sarebbe da ripartire l’acqua.”
La voce è decisa, ferma, quelle che non ammettono ‘ma’ o ‘forse’. Mi preparo mentalmente al solito rosario di lamentele sull’amministratore uscente (che, a questo punto, immagino essere diventato la bestia nera di tutta Italia), ma no. Va dritta al sodo, con una precisione quasi chirurgica. E poi lancia la bomba: “Vorrei capire se può fare tutto… per cinquecento euro l’anno.”
Cinquecento. Non cinquemila. Non duemila e cinquecento. Cinquecento. Per ventuno unità. Ripartizione dell’acqua, dici tu. Solo quello, dici tu. Certo. E poi le riunioni, quelle che durano ore e finiscono sempre in rissa. E i bilanci da chiudere e far quadrare al centesimo, perché guai a sbagliare una virgola. E le riconciliazioni bancarie. E il recupero crediti, perché i morosi ci sono sempre, anche dove l’acqua è l’unica cosa da ripartire. E le assemblee, che non si tengono mai negli orari comodi per me. E le telefonate a ogni ora del giorno e della notte, perché il vicino russa troppo forte o il gatto del piano di sopra mi guarda male. E le norme che cambiano ogni sei mesi, costringendoti a studiare come se fossi ancora all’università. E le beghe tra vicini, che devi dirimere tu perché sei l’amministratore e quindi sei una specie di giudice di pace non pagato. Cinquecento euro. L’anno.
Per un attimo, l’aria mi si ferma nei polmoni. Sento il cuore fare un tonfo sordo. Resto in silenzio, cerco nelle pieghe della sua voce un accenno di scherzo, un malinteso, un errore di pronuncia. Forse cinquecento è solo un anticipo simbolico, un’offerta di apertura per poi trattare? Magari ha sbagliato a digitare l’email e questo è un numero a caso?
Ma no, la voce è granitica, sicura come una roccia nel deserto. “Mi scusi”, azzardo, con un filo di voce che sa di incredulità, “vuole dire cinquecento al mese, giusto?”
“No, no”, ribatte lei, quasi seccata dalla mia stupidità. “Cinquecento l’anno. L’ho detto. In fondo,” e qui arriva la mazzata finale, l’apice dell’assurdo che mi fa quasi piegare in due, “c’è solo da ripartire l’acqua”.
Respiro a fondo, contando fino a cento. Forse mille. Cerco le parole non da amministratore, ma da essere umano che cerca di far capire l’ovvio a un muro di gomma. “Guardi,” rispondo, mantenendo una professionalità che non so dove trovo, forse è una skill acquisita dopo anni di battaglie condominiali, “per quella cifra… non riuscirei a coprire nemmeno i costi vivi dello studio. Le utenze, l’affitto, il software, le telefonate… Onestamente, mi creda,” la voce si fa forse un po’ più stanca, “neanche se amministrassi il suo condominio per duemila anni riuscirei a rientrare della spesa e guadagnarci qualcosa. Sarebbe un’impresa epica, degna di un poema omerico, ma non finanziariamente sostenibile.”
Lei resta in silenzio dall’altra parte. La immagino, forse, visualizzando me incatenato a una scrivania impolverata per i prossimi due millenni, a compilare bilanci a lume di candela, nutrito solo da pacchi di scartoffie vecchie. “Ma non c’è così tanto da fare!” insiste, la voce che sconfina nella protesta, come se la stessi truffando io.
E lì, come un’eco lontana, un mantra che risuona nelle orecchie di ogni amministratore, mi torna in mente la voce di un vecchio collega, un amministratore navigato che ha visto di tutto e di più. “La gente,” diceva, scuotendo la testa stancamente e fissando un punto nel vuoto, “la gente non vuole un servizio. Vuole un miracolo. Solo che lo vuole al costo di un caffè.”
Chiudo la chiamata. Non sorrido, non subito. Sento solo una stanchezza profonda, che si annida nelle ossa. Ma poi, mentre salvo l’ultimo documento, un sorriso amaro affiora sulle labbra. Sì. Devo annotare anche questa. Devo scrivere. Sul mio Diario dell’Assurdo Condominiale. Forse un giorno, tra duemila anni, quando avrò finalmente ripartito l’acqua di quel condominio immaginario, scriverò un libro. O, più probabilmente, questo diario diventerà il mio testamento spirituale per il povero cristo che prenderà il mio posto. Sempre che, ovviamente, sia disposto a lavorare per il costo di un caffè all’anno. O forse meno.
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