Quando il contratto entra in assemblea
C’è un momento, in ogni assemblea, che riconosco al volo.
È quello in cui appoggio sul tavolo il fascicolo di un contratto.
Pagine fitte di termini tecnici, articoli, commi, note legali. Appena lo vedono, i condomini si raddrizzano sulle sedie, si sporgono, qualcuno prende gli occhiali, un altro sussurra “vediamo cosa c’è scritto qua”. È sempre la stessa scena, ma ogni volta ha un suo piccolo terremoto.
Il contratto diventa un corpo vivo. C’è chi lo sfoglia con sospetto, chi ne pesa lo spessore come se in quelle pagine si nascondesse una verità scomoda, chi va subito all’ultima riga per cercare la cifra, convinto che tutto si giochi lì. Le dita scorrono, gli sguardi si fanno gravi. Parole come “oneri accessori” o “decorrenza automatica” rimbalzano sul tavolo con la stessa cautela di una diagnosi.
In quei momenti, nessuno si fida di nessuno.
Il contratto non è ancora stato letto, ma già è percepito come un campo minato. Potrebbe nascondere un errore, un vantaggio per qualcuno, una trappola giuridica. Eppure quella diffidenza, se la guardo bene, ha qualcosa di sano: è la prova che il condominio è vivo, che le persone vogliono capire, che non si rassegnano a delegare.
Mi schiarisco la voce e inizio a spiegare. Pronuncio parole come “clausola di non solidarietà”, “responsabilità pro quota”, “tutela dei condomini in regola”. Sento l’attenzione cambiare direzione: gli sguardi si alzano, qualcuno afferra la penna come fosse un’arma, un altro prende appunti. L’atmosfera si fa densa, quasi giudiziaria. Tutti vogliono capire di cosa si tratta.
La lettura procede lenta. Gli articoli si inseguono, i riferimenti normativi si intrecciano come una lingua straniera. Poi, immancabile, arriva la domanda:
“Scusi, ma questa clausola… cosa significa che non siamo solidali? Io pago il mio, ma se il vicino non paga, che succede? È una legge contro di noi o per noi?”
Rispondo con pazienza. Spiego che non è una trovata del condominio, ma un principio giuridico riconosciuto: ogni condomino è responsabile solo per la propria quota, non per l’intero. È la cosiddetta deroga alla solidarietà passiva, prevista dall’articolo 1314 del Codice civile.
A rafforzare questo orientamento è intervenuta anche la La legge n. 220 del 2012 (Riforma del condominio) ha modificato l’articolo 63 delle disposizioni di attuazione del Codice Civile, stabilendo che:
Un creditore del condominio può agire legalmente contro i condomini solvibili solo dopo aver tentato il recupero del credito dai condomini morosi, mediante l’escussione preventiva dei loro beni.
Questo significa che il creditore non può pignorare direttamente i beni di chi è in regola con i pagamenti, ma deve prima dimostrare di aver esaurito, senza successo, ogni tentativo contro i morosi. L’amministratore ha l’obbligo di fornire al creditore l’elenco dei condomini morosi con i relativi dati per facilitare tale procedura. In teoria, è una tutela.
In pratica, non tutti la vivono così.
Un condomino, il più meticoloso, scuote la testa: “Io la chiamo la legge dei furbi” dice, con quell’ironia tagliente più di una protesta. “Protegge chi paga, d’accordo, ma chi non paga dorme tranquillo. Prima almeno si soffriva insieme. Ora ognuno pensa al proprio orticello.”
Sorrido, ma dentro di me sento la verità che pesa tra noi. Cerco di spiegare che no, non è così, che la clausola serve a evitare ingiustizie, a impedire che i virtuosi paghino per i morosi. Le mie parole, però, non attraversano lo spazio comune: rimbalzano contro pensieri già formati, si infrangono sui sospetti, si disperdono nei silenzi e nelle micropause tra una frase e l’altra. Diventano oggetti instabili, percepibili solo come echi, capaci di graffiare la coscienza senza mai penetrarla davvero.
Osservo gli sguardi che sfuggono, le mani che si stringono o si lasciano cadere, e capisco che la ragione giuridica non basta: la fiducia collettiva è una costruzione fragile, che si sostiene a stento, e ciascuno la misura in base al proprio timore.
La responsabilità condivisa non è un concetto astratto, ma un peso vissuto diversamente da ognuno, una tensione che lega e separa nello stesso tempo. In quell’istante, il contratto smette di essere un documento: diventa un prisma, attraverso cui vedo il limite della cooperazione e il confine invisibile tra ciò che si può condividere e ciò che resta profondamente individuale.
Intorno al tavolo, osservo il dispiegarsi di un piccolo teatro umano: chi si aggrappa alla fiducia come a un rifugio, chi la nega con rigidità, chi mescola diritto e morale come fossero colori indistinti, chi vorrebbe solo adempiere al proprio dovere e sparire. Tutti cercano un appiglio, un senso di sicurezza, ma comprendo che nessuna norma potrà mai colmare il vuoto tra ciò che è giusto e ciò che ciascuno percepisce come giusto per sé.
A quel punto il contratto smette di essere un insieme di articoli e cifre. Diventa uno specchio crudele: riflette la misura della fiducia collettiva, mette a nudo la fragilità della cooperazione, rivela la fatica di restare parte di un organismo che obbliga a condividere spese, spazi, destini. Ogni clausola, ogni parola, non è più un dettaglio tecnico: è un prisma attraverso cui scorgo le tensioni invisibili, le paure silenziose, la solitudine che convive con la necessità di coesistere.
Lo stesso condomino che in assemblea ha discusso per mezz’ora, davanti al computer firma online un contratto senza sfiorare neppure la prima riga. Nessuna domanda, nessuna esitazione. Firma, paga, e ritorna alla sua tranquillità come se nulla fosse accaduto. In gruppo lotta per comprendere, nella solitudine privata abdica a ogni riflessione: la vigilanza, isolata, diventa peso superfluo e il sollievo immediato prevale sulla responsabilità condivisa.
Ogni volta mi ritorna alla mente quel paradosso: nel condominio ogni clausola viene scrutata come un dovere morale; ciascuno, spinto dalla propria insoddisfazione, vuole dimostrare di sapere più degli altri. Nella vita privata, invece, la stessa attenzione svanisce. La diffidenza individuale appare inutile e rinunciare a interrogarsi diventa la scelta più comoda.
Così il paradosso si ripete: nella dimensione collettiva la diffidenza è lucidità; nella solitudine individuale, fatica da evitare. La clausola di non solidarietà non è solo un dettaglio tecnico: è una piccola metafora del tempo in cui viviamo. Ciascuno risponde per la propria parte, nessuno per l’intero. Il principio è giusto, eppure lascia un retrogusto amaro: la legge può garantire equità senza colmare mai la distanza tra le persone.
Alla fine della riunione raccolgo le firme. Un condomino indugia un attimo, poi scrive il proprio nome. “Tanto,” dice, “è una legge che tutela i condomini dai morosi, no?”
Nessuno ride, eppure tutti avvertono il peso di quella frase: un sigillo ironico, quasi malinconico, sul nostro tempo. Un tempo in cui la fiducia collettiva non è più un sentimento spontaneo, ma un vincolo che si misura, si annota, si sancisce su carta. La clausola diventa allora uno specchio: mostra il limite della cooperazione, la precarietà della solidarietà e il confine tra ciò che scegliamo di condividere e ciò che ci appartiene solo come responsabilità individuale.
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