Apologia di un amministratore di condominio – Premessa
Non Gestisco solo Immobili, Gestisco anche l’Umano
Cosa pensiamo quando pensiamo a un amministratore di condominio? Un burocrate, un contabile, una figura grigia che invia solleciti di pagamento. Ma se dietro le scartoffie e le assemblee si nascondesse un profondo osservatore dell’animo umano?
Non è una difesa, è una prospettiva
Non sto cercando giustificazioni.
Non ho nulla da dimostrare.
Il mio ruolo è spesso oggetto di critiche: “Lei non ha fatto”, “Lei doveva sapere”, “Lei è responsabile”.
Lo sono. E ne sono consapevole.
Ma non parlo per difendermi. Parlo perché ci sono professioni che sembrano minori solo perché nessuno le ha mai raccontate con la giusta profondità.
Il mio intento non è convincere, ma descrivere le cose come stanno.
Con precisione. Con onestà.
Con quel rispetto che si deve alla realtà, anche quando è scomoda.
Non sognavo questo mestiere, l’ho scoperto
Non credo esiste un bambino al mondo che sogna di fare l’amministratore di condominio. Non esistono pupazzi con la 24 ore e i verbali di assemblea.
Ci si arriva per caso, per deviazione, per necessità.
Io ci sono arrivato così: lentamente, senza gloria, dopo aver provato altro.
All’inizio lo vedevo come un insieme di scartoffie, faldoni e chiavi di riserva.
Poi, piano piano, ho capito che in questo mestiere non c’è nulla di banale, se sai dove guardare.
Il mio vero lavoro: gestire le crepe dell’anima, non dei muri
Molti pensano che io gestisca immobili. Ma il mio vero lavoro è gestire l’umano.
Le crepe nei muri sono solo l’inizio. Quelle che contano sono le crepe nella convivenza, nella fiducia, nella comunicazione.
Il condominio è una forma moderna di contratto sociale. Una democrazia instabile, obbligatoria, senza leader. Una struttura in cui le persone vivono a contatto costante ma in isolamento emotivo.
Le persone abitano i muri, ma non le relazioni.
Vivono accanto, non insieme.
Si ascoltano solo attraverso i rumori.
Si odiano senza conoscersi.
Quando qualcosa si rompe — una pompa, una luce, un portone — allora esplode anche tutto quello che è rimasto taciuto per anni.
Io arrivo lì. Nel punto in cui la materia si rompe e con essa si rompe anche l’equilibrio emotivo.
Io sto nel mezzo: il ruolo del mediatore dell’invisibile
C’è una parte del mio lavoro che nessuno vede. Eppure è la più importante: stare nel mezzo.
Tra chi vuole rifare l’intero condominio e chi non vuole spendere.
Tra chi ha paura del rumore e chi ha bisogno di esistere.
Tra il diritto al riposo e il bisogno di vivere.
Tra la solitudine e la rabbia, la malinconia e l’aggressività.
Io sto lì. A mediare. A contenere. A evitare che i conflitti degenerino.
A tenere insieme ciò che, per natura, tende a separarsi. Non è questione di burocrazia. È questione psicologica.
Chi crede che il mio mestiere sia solo contabile non ha mai assistito a una vera assemblea.
Lì vedi il potere, il dolore, la vergogna.
Lì vedi l’essere umano quando si sente minacciato da un altro essere umano troppo vicino.
Psicologia del vicino: ansia, controllo e “segnalazioni urgenti”
Ci sono condomini che frequento da anni senza conoscerne davvero i volti. Non perché manchi l’occasione, ma perché scelgono di non farsi conoscere.
Vivono chiusi. Temono il giudizio, ma giudicano tutto.
Osservano, annotano, commentano.
Scrivono lettere anonime. Inviano mail con oggetto: “Segnalazione urgente”.
Eppure, se li incroci per strada, abbassano lo sguardo.
In quei comportamenti c’è una paura primitiva: quella di non contare nulla. Di essere invisibili.
Allora cercano di riaffermare il loro controllo attraverso le piccole battaglie quotidiane: la siepe tagliata male, il garage aperto per errore, la bicicletta nel cortile.
La psicologia del vicino è la psicologia dell’ansia.
Io non li giudico. Li osservo. Li ascolto.
E provo, con i miei strumenti, a dare una forma razionale alla loro ansia.
Il limite: perché il “non puoi” è la base della convivenza
Tutti parlano di libertà. Pochi parlano di limite.
Il condominio è la forma più pura e più dura del limite.
Non puoi suonare il pianoforte a mezzanotte.
Non puoi rifare il bagno quando ti pare.
Non puoi.
E questo “non puoi”, che per alcuni è una violenza, è in realtà la condizione della convivenza.
La libertà totale non è vita civile. È isolamento.
Il limite è ciò che permette all’altro di esistere.
Eppure il mio mestiere è spesso vissuto come l’imposizione del limite.
Sono io che “dice di no”. Che “invia lettere”. Che “pretende regole”.
Io sono il volto scomodo della convivenza.
Ma non c’è libertà senza regola. Non c’è comunità senza vincolo.
L’etica delle piccole scelte, quando nessuno guarda
Molte delle mie decisioni non si vedono. Non fanno rumore. Non finiscono nei verbali.
Ma sono quelle che contano.
Quando scelgo una ditta onesta, anche se costa di più.
Quando ignoro una proposta ambigua.
Quando proteggo un condomino fragile da un’esposizione inutile.
L’etica dell’amministratore non è nei grandi gesti, ma nella continuità delle scelte piccole.
È un’etica della cura, non del protagonismo.
È la perseveranza nella correttezza quando nessuno guarda.
È una questione di coerenza. Con i miei princìpi, prima che con i verbali.
È questa coerenza a dare peso e solidità al mio ruolo.
La distanza come strumento di lavoro
Per gestire il rumore degli altri, serve una certa quota di silenzio.
Per capire le dinamiche di un gruppo, è necessaria una certa distanza.
Questa posizione mi permette di sentire meglio, di capire prima, di non reagire d’impulso o per frustrazione personale.
Un amministratore immerso nel chiasso emotivo perde lucidità.
La distanza non è isolamento, è il prerequisito per un’analisi chiara e per decisioni equilibrate.
È uno strumento professionale.
Richiesta di competenza, non di consenso
Il mio obiettivo non è il consenso, ma il risultato: un equilibrio sostenibile.
Non cerco gratitudine, ma la comprensione della complessità del mio ruolo.
Che dietro ogni atto ci sia una valutazione, un rischio, una responsabilità assunta.
Che ogni errore non è una negligenza, ma una lezione per migliorare.
Non voglio medaglie.
Chiedo che il giudizio sia basato sulla competenza, sulla fatica di tenere insieme ciò che per natura tende a disfarsi.
La vera civiltà si misura sul pianerottolo
Potremmo parlare di grandi sistemi politici, di ideologie, di riforme.
Ma tutto si gioca qui: nella capacità di vivere con l’altro.
Un paese civile non è quello con le grandi leggi.
È quello in cui il condomino del terzo rispetta quello del primo.
In cui si tace quando serve, si parla quando è giusto, si ascolta anche quando si è stanchi.
Il condominio è la cellula minima della democrazia.
E l’amministratore, in silenzio, è il suo custode.
Una testimonianza, non una lezione
Ho parlato perché il silenzio di chi fa lavori complessi viene spesso scambiato per semplicità.
Ho parlato perché ogni mestiere ha una dignità, se vissuto con pensiero.
Ho parlato perché non voglio più che la complessità venga scambiata per banalità.
Questo lavoro mi ha insegnato la precisione, l’ascolto e la sobrietà.
Se c’è qualcuno che ha voglia di guardare oltre lo stereotipo, allora queste parole hanno raggiunto il loro scopo.
Non ho nulla da insegnare.
Ma nel bene o nel male ho qualcosa da testimoniare.
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